La cultura Giapponese è profondamente diversa da qualsiasi altra. Nessuna nazione al mondo ha maturato così profonde differenze, usi, costumi e tradizioni, protocolli di socialità, ritualità complicate e formalità a volte ossessive.
Ovviamente ai nostri occhi.
Intervista a tre celebri traduttori.
Se credete che basti il vocabolario, sbagliate. Non è sufficiente nemmeno una buona padronanza della lingua. Pensate che in giapponese sostantivi e aggettivi non distinguono tra genere e numero, non ci sono gli articoli, i verbi indicano il tempo dell’azione (il futuro, però, non esiste), ma non la persona. Tantissime sono le parole omofone e le voci onomatopeiche. In più, ciò che è superfluo (spesso, per esempio, il soggetto) viene omesso, mentre si tende a mettere in risalto gli aspetti secondari: queste caratteristiche fanno sì che le espressioni risultino più sfumate e ambigue di quanto non siano in italiano. Ecco perché, ancor più che per altre lingue, il traduttore deve avere una profonda conoscenza dei costumi, dell’etichetta e della storia giapponesi.
«Se scrivo che il protagonista si è seduto, a un occidentale viene in mente una sedia, ma in Giappone vuol dire gambe incrociate sul tatami», spiega Antonietta Pastore, traduttrice di autori classici come Abe, Ikezawa, Inoue, Soseki e del contemporaneo Murakami. È importante avere dimestichezza anche con la filosofia e i riti delle arti marziali. Per descrivere un duello di katana è necessario sapere che la spada è firmata sul nakago, ossia il codolo che si impianta nel manico, e non genericamente sulla lama, e che prima dello scontro — per garantire una presa più salda — si sputa sulla nastratura del manico, la tsuka, che non è la tsuba, ossia l’elsa. Non c’è dubbio, la vita di un traduttore dal giapponese è piuttosto dura.
Perché tradurre non significa solo trovare parole corrispettive, ma ricollocare la storia narrata e il suo lessico all’interno di un diverso contesto linguistico, senza snaturare la voce dell’autore o reinterpretare il testo. Un compito arduo, persino quando non si ha a che fare con una lingua complessa come il giapponese.
Il traduttore è come un direttore d’orchestra che dà la propria versione di una sinfonia. È un artigiano che conosce bene la lingua di partenza e alla perfezione quella di arrivo.
Ma come si comincia con il giapponese?
«Per me è stato un caso», ammette Giorgio Amitrano, principale voce italiana di Banana Yoshimoto. «All’Università degli Studi di Napoli L’Orientale, dove oggi insegno, si tenevano corsi di cinese, arabo, giapponese, hindi… Incuriosito, mi iscrissi ad alcuni di essi. Dopo poche settimane, decisi di concentrarmi sul giapponese. Non fu una scelta ponderata. Solo diversi anni più tardi capii che avevo seguito un richiamo, un istinto di cui io stesso non ero ben consapevole».
Per Antonietta Pastore si è trattato di un affare di cuore: »Ho sposato un giapponese e ho vissuto sedici anni nel suo Paese. In vista del trasferimento avevo cominciato a studiare la lingua. Al mio arrivo, e per i primi sei mesi, ho vissuto con la sua famiglia e ho imparato a parlare. Ricordo le conversazioni in cucina con mia suocera. Ma per assimilare è necessario leggere e così ho fatto, e molto».
Per Adriana Boscaro, invece, fu il frutto di un’urgenza: «Ho studiato alla Ca’ Foscari di Venezia, dove poi ho insegnato per circa quarant’anni», racconta. «Dovevo togliere dalle mani degli studenti testi non tradotti direttamente dal giapponese, ma passando per l’inglese o il francese, e di continuo ristampati con una serie di errori/orrori incredibili». Oggi, per fortuna, la pratica è stata abbandonata.
«Il problema si creava soprattutto con le versioni dall’americano perché, anche se i traduttori scrivevano benissimo, davano al testo italiano la struttura assunta nella versione americana, più concisa e secca», precisa Antonietta Pastore.
In effetti, il mestiere impone non pochi equilibrismi: da un lato si rischia l’eccessiva fedeltà nei confronti dell’originale, che può compromettere il piacere di chi legge, dall’altro l’eccessiva libertà, che allontana dall’originale.
«La lingua è l’espressione della civiltà che la usa. Non è solo la lingua giapponese a essere così diversa dalla nostra, lo è anche la cultura. Di conseguenza tradurre presenta parecchi problemi, che non si risolvono con il vocabolario.., c’è sempre una distanza da colmare, una differenza di usi, abitudini. A volte, anche se si cerca di farlo poco, si è costretti a ricorrere alle note», dice Antonietta Pastore. «Le note, se l’editore lo permette, sono l’extrema ratio di fronte a vocaboli che non hanno un equivalente in italiano», aggiunge Boscaro.
«A volte non si trova una soluzione brillante e allora la traduzione può risultare goffa o somigliare troppo a una spiegazione. In quel caso non si tratterà di un buon risultato, ma il traduttore avrà comunque accompagnato la parola nel suo viaggio da una lingua all’altra e si sarà assicurato che, sebbene un po’ sballottata, sia giunta a destinazione», conclude Amitrano.
——————————————— Tratto dal n’ 195 di MERIDIANI
Antonietta Pastore: docente, scrittrice e traduttrice delle voci più importanti della letteratura nipponica
Adriana Boscaro: ha insegnato letteratura giaponese all’università Ca’ Foscari (Venezia) scrittrice e traduttrice.
Giorgio Amitrano: docente di lingua, cultura e letteratura all’università di Napoli, scrittore e traduttore. Vinse nel 2008 il premio Grinzane Cavour per la traduzione.